Carlo Cosenza's profile

L'eleganza del riccio - REPORTAGE📸

Javier, nato e scappato dalla sua nazione: il Perù. A quei tempi il suo paese era in balia della crisi economica-politica e dovette rifugiarsi illegalmente nel 1995 in un luogo freddo e piovoso come la città di Milano. Carnagione scura, quasi giallognola per mezzo della luce colore giallo delle mura che circondano il palazzo di Via Savona in cui lavora come portinaio; un uomo di 42 anni, bassino di statura rinchiuso all’interno di in un gabbiotto strettissimo, umido e con una sola finestra che affacciava sull’androne del palazzo ed una porta di legno con un vetro. Sopra di lui un piccolo soppalco con delle scale strette e di ferro. Una scrivania piena zeppa di posta da smistare, una rivista dell’Internazionale, chiavi di qualsiasi tipo, un elefante in miniatura e la foto di sua figlia. 
La sua accoglienza è stata molto delicata, quasi si vergognava di farci entrare all’interno di un posto così piccolo, poi una volta piazzata la camera e sciolto il ghiaccio ha aperto il suo cuore “meridionale”. 
Si perché il Sudamerica mi ricorda tanto le persone che vivono nella città di Napoli: carnali, amorevoli, inclusive, attaccati a dei valori come la famiglia ed il lavoro. Insomma mi sono sentito a casa per un giorno, dopo mesi lontano da essa. 
“Javier qual è il tuo sogno?” “Il mio sogno è quello di avere una famiglia, di costruirla così come ha fatto la mia di famiglia”.
Queste parole ci entrarono dritto al cuore, più di un goal in Coppa America del ’93 di Teodoro Oswaldo Fernández Meyzán detto “Lolo”, il più grande idolo dell'Universitario e della nazionale peruviana.  Aveva gli occhi lucidi ed un finto sorriso quando ci disse che la relazione con la propria moglie, sposata qui a Milano, era giunta al termine e che proprio quel giorno aveva la convocazione da parte del giudice per la separazione. 
Ma un’ancora a cui aggrapparsi, un salvagente che ci tiene su a galla c’è sempre ed è sua figlia, l’amore che prova per lei è unico, inimitabile. La sua voce diventa rauca, il nodo alla gola lo butta giù subito con un sorriso. Perché una volta che hai toccato il fondo, trovi la forza di risalire. Sempre.
D.K. Hettinger, meglio chiamarlo Etti, originario dello Sri Lanka, statura media, camicia a quadri, si nasconde dietro un berretto colore beige. La sua scrivania è molto ordinata, pulita, un paio di lettere della posta ed un gabbiotto abbastanza spazioso e luminoso. Con lui è stata un’accoglienza strana, perché è un tipo molto timido, taciturno, non capisce tanto l’Italiano e si sforza a parlarlo in maniera corretta. Ma dietro alle sue spalle c’è una storia enorme, grande quasi quanto lo Sri Lanka. 
Viene in Italia nello stesso anno in cui sono nato io, il 1997 percorrendo innumerevoli chilometri in condizioni pietose; la prima tappa è la Romania in aereo, lì si ferma per circa un mese grazie all’ospitalità di un amico. Dalla Romania inizia il suo viaggio verso una vita migliore, direzione? Italia. A bordo di un camion con un amico il quale aveva la patente per guidarlo, non ricorda con certezza cosa ci fosse all’interno ma ricorda quanto duro e difficile è stato il raggiungimento della felicità seppur apparente. Venticinque - trenta ore di viaggio circa, con due o tre soste in qualche autogrill per riposarsi. Arrivato in Italia prova ad ambientarsi nella città di Milano ma il primo ostacolo fu il contratto di locazione non firmato secondo i termini pattuiti con la proprietaria di casa, la quale si presentò successivamente con quattro persone per sbatterlo via. Innumerevoli cause, innumerevoli lettere da parte della proprietaria che chiedeva un affitto molto più alto di quanto datogli da Etti. 12.000 euro è il prezzo che Etti deve risarcire, a causa di un pessimo avvocato low cost, il quale non mostra al giudice i bonifici emessi dall’uomo srilankese. 
La distanza con la famiglia è terribile, 7.951,66 km ed un solo stipendio da portinaio si sentono, eccome. Mettici anche una figlia di 24 anni, la quale ha studiato in Sri Lanka con ottimi voti e la vendita di ettari di terreni di Thé per farla laureare all’Università del Missouri in ingegneria informatica per poi non trovare neanche un lavoro in America. Un figlio di 13 anni che studia in Sri Lanka la lingua inglese perché il sistema scolastico italiano è molto costoso ma che sogna di poter lavorare in Italia e infine una moglie. 
L’unico modo per “azzerare” la distanza è videochiamare la famiglia, con la quale passa ore ad assicurarsi che vada tutto bene. “Ma ti manca la tua famiglia?” Risponde con un timo sì con il capo chinato. 

Secondo voi, quest’uomo è un portinaio, un custode o il proprietario di un Hotel extralusso in centro di Milano?
Provate a chiederlo al signor Rino ma di nome Rosario. Originario della Sicilia ed emigrato nella città di Milano dopo aver conosciuto la sua compagna, la quale decide di non sposare perché se c’è amore, un pezzo di carta non serve a nulla.
Gli piace definirsi, quasi narcisisticamente un custode “sui generis” per via del suo comportamento molto focoso, tenace e pieno di sé. Ci accoglie nella hall del palazzo di Via Carducci con profumi artigianali e dandoci del lei, vestito in giacca e cravatta e al polso indossa un orologio ed un bracciale d’oro. 
Rino è un anarchico che non scende mai a compromessi, un uomo che ha fatto del lavoro la sua vita: progettista tecnico, venditore, montatore industriale, barista, idraulico, ristoratore, gestore di un negozio di arredamenti, agente immobiliare. Per citarne alcuni. 
Il momento più tragico, sopratutto a livello economico è stato nel periodo della speculazione tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002, dalla lira alla moneta unica europea, l’euro. Tutti a quei tempi hanno fatto il cavolo che gli pare, il signor Rino è stato messo con le spalle a muro vendendo l’agenzia immobiliare e costretto a lavorare in un’azienda di costruzioni come ingegnere e viaggiare spesso tra Italia e Svizzera, lontano da casa. 
Dopo il fallimento di quest’azienda entrò in una crisi interiore, non voleva più lavorare, si sentiva tradito dallo Stato, tradito da tutti quelli che gli erano intorno ma riscopre un valore importante: la famiglia, specialmente in suo figlio che gli da la forza necessaria per rimettersi in careggiata.
Ma un uomo di sessantatré anni, che ha vissuto in una Milano molto ricca e in via di sviluppo, un uomo che ha investito tanto denaro e guadagnato altrettanto alla domanda: “Ma lei pensa che questa nuova carriera da portinaio possa aver ridimensionato quell’uomo che era un tempo?”
Risponde dicendoci che lui non viene retribuito come un semplice portinaio ma si “accontenta” e ci racconta poi un piccolo aneddoto di una signora che ha acquistato l’ultimo appartamento del palazzo perché all’interno della portineria c’era una persona affidabile, educata e competente come il signor Rino. Molto più di un portinaio.
Anica, la mamma del palazzo di Via Tortona. Una donna carismatica, gentile e sempre truccata, ben curata ed un sorriso stampato sul volto che ti trasmette voglia di vivere. 
La sua guardiola è piena zeppa di cimeli, cartoline provenienti da posti sparsi nel mondo, profumi d’ambiente e piantine da arredamento. Nasce in Romania in un periodo molto difficile, quello sotto la dittatura di Nicolae Ceaușescu, padre padrone della Romania, un uomo che diede a sé stesso i titoli di "Conducător" ("Condottiero") e "Geniul din Carpați" ("Genio dei Carpazi”) ma che alle spalle ha più di 300mila i morti e 651.087 detenuti torturati. 
Anica affida la sua piccolissima figlia alla sorella e lascia il suo Paese nel 2002 per poter raggiungere il marito in Italia, arriva qui legalmente e secondo voi quale mestiere può svolgere una donna rumena? La badante. Ed è assurdo che questo stereotipo o questo tipo di lavoro, ancora oggi, venga sempre associato ad una persona proveniente dall’est ma lei la prende a ridere e quasi non ci fa caso. Ricorda benissimo quanto dura e difficile è la distanza con la figlia, sia a livello umano che economico perché negli anni tra il 2002 ed il 2003 c’era da pagare una tassa alla frontiera e questa non permetteva ad Anica ed il marito di andare a trovarla spesso. Dopo un paio di anni, trovato un lavoro stabile, riescono a portare in Italia la figlia, a garantirle una casa e sopratutto l’istruzione. 
Anica lavora più di otto ore al giorno, alla pari di un uomo e quando le si chiede: “Ma tu pensi che questo mestiere possa essere un lavoro per una donna?” Lei risponde con un sì fiero, incarnando tutti i valori che una donna deve avere. Anica con le sue Crocs verdi ed il camice azzurro turchese, non solo raccoglie l’immondizia del condominio, si occupa delle pulizie, la gestione dei pacchi, smista la posta, accoglie le persone all’interno del palazzo ma è un’ottima confidente. 
Una donna dalle spalle forti, poi una portinaia qualsiasi. 
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